Melancholia

Di L.VonTrier, con C.Gainsbourg e K.Dunst, K.Sutherland. 2012

Tre parti: prologo, Justine, Claire. Nel prologo ci viene svelata la fine: il mondo finisce. Il capitolo Justine ci mostra la festa di nozze della stessa, sontuosa ma macchiata dalla comparsa di un misterioso pianeta, da rese dei conti familiari e dall’evidenza che la sposa è, in definitiva, una depressa maggiore assolutamente scompensata, circondata da una manica di parenti abietti (a cominciare dalla madre) e cretini (partendo dal marito), tra cui si salva solo la sorella Claire. Questa, cui è intitolato il secondo atto, si rende conto che il pianeta di cui sopra, Melancholia, è in rotta di collisione con la terra e che sua sorella, disturbata ma intuitiva, lo sapeva da prima di lei.

Tre parti con un unico fine, parlare della fascinazione della morte con l’occhio distorto –e non per questo meno interessante- di un depresso grave. Si differenziano per stile: il primo lirico, il secondo finto conviviale, il terzo intimista ed esistenziale. Per quanto mi riguarda li separa anche la riuscita: il prologo è molto bello, il secondo atto piuttosto gradevole, il primo è uno strazio di noia.
Normalmente non mi fanno impazzire i film dai lunghi silenzi, ma in von Trier devo dire che meno i protagonisti parlano, migliore è il risultato, il che ci illumina su due aspetti fondamentali. Primo, il regista ha una (per me incredibile) capacità di scegliere il suo cast e di convincerla a fare ciò che vuole; è anche possibile che la sua maggior dote sia individuare le persone giuste e poi lasciar loro briglia sciolta, così che esse rendono i rispettivi ruoli molto più interessanti di come erano originariamente pensati. Secondo, il caro Lars ha dei seri problemi di sceneggiatura e di costruzione dei dialoghi: anche in altri suoi film le parti migliori sono quelle pressoché mute o al massimo raccontate da un narratore esterno.

Nel prologo è esplorato il senso tragico ed ineluttabile della sparizione, con splendide immagini dai colori alterati sottolineati dal Tristan und Isolde. Anche la scelta di Wagner (peraltro con uno dei suoi pochi pezzi potabili) racconta di amore per la decomposizione e la decadenza. Nonostante una certa lungaggine, è visivamente affascinante e, nel raccontarci la conclusione permette all’attenzione di focalizzarsi sulle reazioni dei protagonisti piuttosto che essere preda della suspance (anche se magari un po’ più di pepe non sarebbe stato male).
ci mettiamo anche Ofelia e i Preraffaeliti
Il primo e il secondo atto raccontano non tanto il male di vivere ma il desiderio di morte tipico di una depressione al limite dell’accenno psicotico, con la differenza fondamentale che nel primo caso osserviamo con gli occhi del paziente e nel secondo con quello di un sano. Forse è anche per questo che il mio interesse si rivolge naturalmente all’ultimo atto. Mentre Justine è contenta dell’esito infausto dell’umanità e vorrebbe far l’amore nuda sull’erba con il minaccioso astro che campeggia nel suo cielo, in una scena affascinante che avrebbe fatto invidia alla più degradata Scapigliatura e che secondo alcuni critici avrebbe echi Viscontiani, Claire mostra le difficoltà di adattamento alla Morte tipiche dei sani: anche di fronte al destino ingrato di tutta l’umanità affronta il problema in modo individualistico, preoccupandosi di sé e soprattutto del figlioletto, applicandosi, come quotidianamente tutti noi comuni eutimici, in naturalissimi e inutili tentativi di sopravvivenza contro ogni ragionevole aspettativa.

Per chiudere, un appunto di stile. Abbiamo capito che questo famoso Dogma95 impone luci da lumino mortuario, capelli sfatti e colonna sonora inesistente, ma come si creano eccezioni per il commento musicale non sarebbe male rilassarsi un po’ sull’uso della camera a mano, perché soprattutto durante la festa è da voltastomaco, e non parlo di Nausea esistenziale, dico proprio cinetosi da Plasil.

Commenti

  1. Anch'io preferirei un uso più moderato della camera a mano. Però Dogma 95 è roba del secolo scorso, film come questo concedono alla pigrizia dello spettatore molto più di quanto era stabilito in quel tirannico papiro.
    Per quel che ne so, Von Trier viene considerato dagli attori un regista con cui è molto duro e complicato lavorare, per cui escluderei l'ipotesi che possa concedere loro libertà sostanziali. I dialoghi spezzati e i lunghi silenzi sono proprio del suo modo di intendere il cinema, che non è dei più accomodanti. Mi sentirei di garantire che l'effetto ottenuto sia estremamente personale e voluto. Infatti, se guardi due film di Von Trier (possibilmente non di seguito) dovresti riconoscere la stessa mano, anche se il cast è completamente diverso.
    La tua affermazione sulla musica di Wagner meriterebbe di farti vincere un biglietto VIP per l'intero festival di Bayreuth ;-)

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    Risposte
    1. Anche io avevo sentito che lavorare con vonTrier fosse complesso... magari non sa spiegare bene quello che vuole ma poi lo vuole lo stesso :) Quando mi è capitato (spesso) di lavorare con capi così, posso assicurarti che è un incubo :D
      Mi spiace tanto per Wagner, ma davvero lo trovo indigesto. Potrei citare Wilde e dirti che "la sua musica è fantastica: quando vado a teatro a sentire un suo pezzo posso chiacchierare indisturbato tutto il tempo, tanto in mezzo al fracasso non mi si sente!". E' così pretenzioso... niente a che vedere col nitore di Mozart o la vivacità degli italiani!

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    2. Non poteva certo comporre musica in stile mozartiano, sarebbe stato fuori dal suo tempo. Restando all'ottocento, anch'io preferisco altro, e a mio gusto perde il confronto diretto con Brahms.
      Però se è vero che ascoltarne troppo può far venir voglia di invadere la Polonia (cit. Allen), è anche vero che le sue idee sono state alla base di molti successivi interessanti sviluppi musicali. Può non piacere, figuriamoci. Ma, perdinci, definirlo come il compositore di pochi pezzi potabili mi pare eccessivo.

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