Fight Club
D. Fincher, 1999. E. Norton, B. Pitt, H. Bonham Carter, Meat Loaf.
Il racconto si apre su Norton,
viso pesto e pistola in bocca pronta a fare fuoco. In un lungo flashback,
rivediamo la vita del protagonista come lui la ricorda, al massimo
dell’omologazione yuppie: assicuratore per grossa multinazionale, scarpe DKNY,
camicie di Calvin Klein e mobilio Ikea. Insonne, per dormire frequenta i gruppi
di auto aiuto dei malati terminali, cui sugge dolore come un vampiro farebbe
col sangue. Il vuoto della sua esistenza lo schiaccia, ma il gusto tristemente
sobrio del suo status, l’anonimato di marca, lo caratterizza al punto che,
quando il suo appartamento esplode, sembra che tutta la sua vita lo abbia
abbandonato. Proprio in questa occasione conosce Tyler Durden, con cui fonda il
Fight Club e inizia un processo di destrutturazione del sé e della società.
Scopo del Club non è vincere l’avversario, ma sconfiggere le proprie paure
accogliendo e condividendo il dolore, “toccare il fondo” e vedere cosa resta.
C’è poi lo strano rapporto con il personaggio della Bonham Carter, inserita in
una specie di triangolo trai due personaggi maschili. Be’, per evitare spoiler
posso solo dire che ciò che resta è ben ingarbugliato, e ha molto a che fare
con il complesso rapporto tra Tyler il protagonista senza nome.
La realtà è che non si può
parlare di Fight Club senza raccontarne la fine, o forse, come dicono le prime
due regole, NON SI PUO’ PARLARE DEL FIGHT CLUB!
Il film è estremamente
interessante, ma è anche incredibilmente allucinato, e non lo definirei un
capolavoro nonostante sia divenuto un must per un gran numero di cinefili. È
girato con splendida tecnica e con grande cura per i colori, in particolare le
scene di buio, che –come si evince dal poco che ho scritto della trama- sono
molte. La vita quotidiana è dipinta con colori spenti, vestiti sciatti e
stazzonati, pelle opaca e palpebre appesantite, mentre i momenti catalizzati
dalla figura estrema di Tyler è invasa dal glitter, da ombre vivide, giacche di
pelle e vestiti di scaglie, oltre che da ambienti sempre più degradati e
scrostati. Molto bene il cast, il ritmo e la colonna sonora.
Sul lato negativo, la trama è
spesso assurda (con accenti indecentemente compiaciuti), parte dal genere
psicanalitico spinto per derivare verso il sociologico/politico (la parte più
debole) e poi tornare alla base, con un finale (non ve lo racconto, non vi
preoccupate) semi-positivo talmente ipocrita da produrre prurito. Le scene
violente e pulp sono a volte troppo crude e spiacevolmente verosimili (non c’è
niente dell’ironia estetizzante dei massacri di Tarantino, tanto per fare un
nome) e molto spesso ci si interroga su quali acidi abbiano aiutato il regista
a partorire cotanto lavoro.
Alla fine resta un grande punto
interrogativo sul significato profondo di tutto ciò che abbiamo visto: c’è
speranza per l’uomo moderno o no? Che cosa ci riporterà all’essenza di noi
stessi, senza farci rinunciare alla conservazione dei nostri lineamenti?
Mistero.
Anche a me il film non è sembrato completamente riuscito. Il romanzo omonimo su cui è basata la sceneggiatura, di Chuck Palahniuk, è stato stravolto in più parti (in particolare il finale) con il fine evidente di rendere la storia meno urticante e più commerciale.
RispondiEliminaAvvisando dello spoiler, me lo racconti come finisce il libro? Grazie! ...non credo avrei il coraggio di leggerlo.
RispondiEliminaSpoiler del finale!
Elimina(del libro)
Il protagonista si risveglia dal tentativo di suicidio in un ospedale psichiatrico, e sembra ancor più fuori di testa di com'era prima.
Inoltre, il progetto Mayhem cresce indipendente dalla sua (o della sua altra personalità) volontà, e persino quell'ospedale è infiltrato da attivisti, che lo contattano e gli chiedono di unirsi nuovamente a loro.
grazie! sì, effettivamente è ancora più allucintao, ma direi che è più adeguato.
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