I padroni della notte



Bobby è un ragazzone moderatamente scapestrato che gestisce con successo un night club di proprietà della mafia russa; lo accompagna una bellezza portoricana di professione entreineuse, l'unica a conoscere il suo vero cognome: non Green, ma Grusinski. Ragione dell'inganno è il celare che il resto della famiglia, nelle persone del padre e del fratello Joseph, sono esponenti di spicco della polizia di New York, impegnata in operazioni antidroga proprio contro i datori di lavoro di Bobby. Questi decide di diventare un infiltrato quando Joseph è ferito dal nipote del decano russo, ma, scoperto, causa la morte del padre.

James Grey dipinge un presente cupo come un romanzo russo d'inizio Novecento, e altrettanto pieno di caustico umorismo e dannazione; per farlo usa la palette dei pessimisti futuri prossimi di Ridley Scott, pieni di grigi, ma soprattutto di blu. J. Phoenix, tra i suoi attori prediletti, diretto anche in Two Lovers, è perfetto per il personaggio lacerato e decadente di Bobby, così come molto azzeccati sono anche il perfettino-rigidino M. Wahlberg per Joseph e R. Duvall per il padre, integerrimo ma capace d'amore anche per il figliol prodigo. Sospendo il giudizio per E. Mendes, che non ho mai amato per le sue forme un po' volgari, ma credibile in quest'opera triste.

Il finale mi ha un po' sorpreso (ATTENZIONE, SPOILER): il neo-poliziotto si fa giustizia da sé manifestando una profonda, radicata sfiducia nel sistema che ha deciso di sposare, e i suoi colleghi lo applaudono; d'altro canto l'originale difensore della legge per vocazione scopre l'affetto per la pecora nera di famiglia e si ritira in amministrazione. Follie della vita moderna.

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